Dioniso & Figlie – Premiata Vineria
Testo di Orlando Forioso tratto dalle “Baccanti” di Euripide.
Spettacolo per Le Notti di Monte Sirai – Carbonia – Sardegna
Creazione : 10 agosto 2018 , Carbonia – Teatro di Monte Sirai
Con:
Dioniso – Caterina Murino
Penteo – Andrea Tedde
Agave – Cristina Maccioni
Tiresia/Messaggero – Simeone Latini
Cadmo – Orlando Forioso
Coro: attori compagnia La Clessidra
Regia : Orlando Forioso
Una produzione TeatrEuropa per il festival Le notti di Monte Sirai 2018 » DIVINO SHOW »- Con il sostegno della Collectivité de Corse
Gli dei dell’Olimpo scherzano con gli uomini, si divertono. Li illudono di poter affrontarli da pari a pari e poi, che sia per “hybris” o per “moira”, tracotanza o destino, calcano il piede sul formicaio impazzito che sta sotto la volta del cielo. Si prenda Penteo, re di Tebe che, unico in una città ormai posseduta dai fumi del vino, si rifiuta di riconoscere la divinità in quel Dioniso che pure gli è parente, praticamente un cugino. Intanto seppure lo fosse, sarebbe un semidio, perché è sì figlio di Zeus ma la madre era una donna, Semele. Il suo grembo lo ha nutrito finché, Era, consorte del Saettante, non ha cercato di estinguere con lei anche l’illegittima discendenza. L’ultima porzione di gravidanza ha dovuto aver luogo, perciò, dentro la coscia di Zeus, da cui l’aura ambigua che circonda la sua figura. I tebani, evidentemente, si vergognavano dell’amore peccaminoso – non certo la prima avventura terrestre del più potente degli dei – di questa concittadina, tanto da mettere in dubbio che Semele il figlio lo abbia avuto proprio da Zeus. Ma quando Dioniso, dopo lungo vagare in Asia Minore raggiunge la città, cedono: cedono soprattutto le donne, affascinate da un messaggio terragno, legato alle forze primordiali della natura e della vita. Si potrebbe dire con Nietzsche, che nel dionisiaco individuò l’origine delle spirito tragico: umano, troppo umano. Già perché Dioniso non parla agli eroi, come i suoi parenti olimpici, ma agli uomini, in particolare agli ultimi, ai derelitti, ai sofferenti: ad essi offre il vino, portentoso liquido che consola gli afflitti e cancella il ricordo del dolore. Così perfino il vecchio sovrano Cadmo e il saggio aruspice cieco Tiresia finiscono per farsi trascinare dalla forza della nuova sanguigna pietas. Le donne in preda all’alcool, le Baccanti, per l’appunto, si lasciano andare, tuttavia, ai riti più scatenati non senza evitare l’efferatezza incosciente: di ciò s’approfitta il dio per completare la vendetta sui miscredenti, trascinando Penteo in mezzo alla furia muliebre sicché da essa sia travolto e sia sua madre, Agave, la prima a farne brani. Così si compie il trionfo del nuovo dio, così Tebe è punita e presa d’assalto dalle schiere dei suoi adepti.
Il plot delle “Baccanti” di Euripide è una vicenda mitica, da cui il tragediografo dell’ultimo scorcio del V secolo ha tratto uno testi più enigmatici di una produzione comunque sempre difficile da inquadrare dal punto di vista semantico. Ritorno alla tradizione religiosa ancestrale, in un epoca di crisi culturale e sociale; richiamo estremo ai valori dell’uomo e della sua ragione contro la recrudescenza dell’irrazionalità fondata su moventi primordiali; accettazione del limite umano nel confronto fra la coscienza e l’imperscrutabile: sono davvero innumerevoli gli spunti che, soprattutto al teatro contemporaneo, “Le Baccanti” hanno saputo suscitare. Orlando Forioso, regista della rappresentazione andata in scena venerdì per “Notti a Monte Sirai”, è parso cercato, con successo, la strada della “levitas”, intanto modificando il titolo in “Dioniso & Figlie – Premiata Vineria”, che avrebbe fatto pensare a una versione da “Carmina Burana” o, quanto meno, in enoteca. Euripide – basti pensare alla figura di Eracle nella “Alcesti”, esempio di “tragedia con lieto fine” – non disdegna l’introduzione di elementi, se non comici, “non-tragici” ed è probabilmente a questa caratteristica che si è agganciato il regista, per quanto, ancorché prosciugato del superfluo, l’impianto della vicenda sia rimasto pressoché intatto. Il personaggio che più si è spinto sul versante della tragicommedia è stato il Penteo di Andrea Tedde: nel confronto con l’efficace Dioniso di Caterina Murino, la sua sicumera nel promettere di riportare immediatamente l’ordine nella città in preda ai baccanali, si mostra assai presto prossima al grottesco. Il dio ha la sfrontatezza e la crudeltà di una “femme fatale” che gioca con la vittima designata come fa il gatto con il topo e lo spinge solleticando la sua curiosità nelle fauci del mostro che egli stesso ha creato, rendendo infine il delitto, che si compie per mano materna, ancora più infame. Così si deve compiere il destino di Tebe e dei suoi abitanti e così si deve affermare questa nuova religiosità dell’abbandono assoluto: chi si oppone non ha scampo ma anche chi si piega rischia tanto. Due vecchi come Cadmo, i cui panni ha vestito lo stesso Forioso, e Tiresia, interpretato da Simeone Latini, lasciano per strada la saggezza dell’età e, quando si accorgono della sciagura, è ormai troppo tardi; Agave, cui ha dato corpo e voce Cristina Maccioni si mette a capo delle Baccanti (portate sulla scena dagli attori della Clessidra Teatro) e guida i riti più smodati: così, quando tutto sta per compiersi, è già irreparabile, nessuno può opporvisi perché nessuno ha concervato il senno.
Il messaggio vagamente oraziano del lavoro, sottolineato dalle parole di Dioniso rivolto al pubblico nel finale, insomma non riesce del tutto a fare dimenticare lo strazio di una morte feroce e di una punizione come dice Tiresia rivolgendosi al dio, iniqua, eccessiva. L’uomo moderno non deve temere più niente dal dio, piuttosto dalla religione: dagli uomini che, in nome di un dio, pretendono di porre le vite degli altri uomini sui piati della bilancia e di segnare i confini fra il bene e il male. E se Penteo, da una parte, può apparire un ridicolo burattino illuso di sconfiggere l’irrazionalità con la forza della ragione e della legge, d’altra parte egli può ben essere il simulacro di una delle innumerevoli vittime di fedi cieche che, ancora oggi, religioni o meno, possono trascinare l’uomo verso il baratro dell’autodistruzione.
Giovanni Di Pasquale